Abbiamo passato il pomeriggio con le “donne di Manta”, quelle che due anni fa erano tutte impegnate a produrre il burro di karité e alle quali abbiamo regalato il mulino per il fonio. Oggi invece, in gruppo attorno alla loro Presidente, Therèse, erano impegnate nel lavaggio di questo cereale, un passaggio successivo a quello
del mulino. I semi di fonio sono ora sgranati e decorticati, si tratta di eliminare tutta la sabbia e altre schifezze che li contaminano. Il lavaggio consiste nel passare e ripassare da una bacina piena d’acqua pulita ad un’altra i semi finché sembrano puliti.
La fase sucessiva sarà seccare per bene il fonio e questo si fa su una terrazza
esposta al sole, con i semi coperti da fogli di plastica trasparenti, per proteggerli dalla polvere.
L’ ultimo passaggio è ancora nel mulino, con la trasformazione del fonio in farina pronta per essere cucinata in frittelle, polenta o zuppe tipo il semolino ma condite con miele, che è la colazione tipica di qui.
Lasciate le donne, siamo ripartiti su una lunga pista, prima in macchina, poi in moto e poi ancora a piedi, per arrivare a Dikon-hin.
È questo un villaggio dove si parla il ditammari, la lingua di Sylvain, e le capanne degli insediamenti, molto dispersi tra i campi, si raccolgono attorno alla Tata, la casa dei progenitori, dimora degli spiriti degli avi.
Siamo arrivati all’imbrunire e, naturalmente, erano tutti pronti ad un’accoglienza festosa, soprattutto le donne, eleganti e scatenate in danze tipiche di benvenuto.
Mai successo a loro memoria che un bianco si sedesse in mezzo a loro, a chiacchierare, mentre calava il sole. In realtà abbiamo parlato dei loro problemi fino
al buio totale, quando era pronta la cena, che ci hanno servito in una zona appartata, vicino alla casetta dove avremmo poi dormito. Cena a base di polenta di fonio e pollo in salsa di arachidi, senza cucchiai, lusso qui sconosciuto, alla luce romantica di una lampadina ad energia solare, l’unica in tutto il villaggio.
La capanna era un edificio elementare di terra e lamiere, una porta e niente finestre, un pavimento pulito, maledettamente duro, una stuoia e buona notte.
Verso le tre di mattina non ne potevo più e sono uscito, ho recuperato la seggiolona di M. Noel, il capovillaggio, e finalmente mi sono goduto la pace infinita e il fresco delle notti africane.
Intuivo i profili delle capanne, ma dominava su tutto l’ombra di un baobab gigantesco. Il silenzio non era assoluto, perché tutti gli animali dormono nell’aia, capre, oche, galline, cani e c’è sempre qualcuno che borbotta mentre sogna o digerisce il poco che è riuscito a mangiare.
Qua e là colpi di tosse, gemiti di bambini e sussurri di mamme. Unconcerto di suoni appena accennati, quasi temessero di disturbare l’infinito cielo che incombe su di loro. Ho ritrovato Orione, le Pleiadi, Cassiopea che conosco bene e, naturalmente, i carri e la stella polare. Non c’era luna, solo arabeschi e ricami di stelle. Un vero incanto che mi sono goduto, finché ero pronto un’altra volta ad affrontare il pavimento della capanna.
Al mattino (all’alba) tutti in piedi, è pronta la colazione, naturalmente una zuppa di fonio, ingentilita però da abbondante miele casareccio di nerè.
M.me Colette, che già la sera prima si era sfogata a raccontarmi quanto è
grande lì da loro il problema dell’acqua, viene a prendermi e devo seguirla, assieme alle donne che vanno a rifornirsi d’acqua. Così mi rendo conto finalmente di cosa significa vivere nel medioevo, in capanne di terra e paglia, senza strade, senza luce, in promiscuità con gli animali e senza acqua.
C’è un ruscello a poca distanza da villaggio, in secca, perché le piogge sono finite da qualche settimana. Le donne scendono nel greto e scavano una buca, l’acqua affiora e si raccoglie nella pozza, allora le donne la estraggono con una zucca e riempiono delle gigantesche bacinelle, l’acqua se la portano a casa e la lasciano
decantare per un paio d’ore, poi, quando la sabbia si è depositata, tutti possono tranquillamente bere.
Nel frattempo la buca è stata chiusa, altrimenti arrivano gli animali, bevono e ci pisciano dentro. Quando serve altra acqua, si scava un’altra buca. A mano a mano che la stagione secca avanza, la falda si abbassa, arrivano anche gli uomini con i badili per scavare fino a più di un metro, poi coprono lo scavo e dopo un po’
ricominciano alla ricerca di altra acqua.
M.me Colette non ne può più, lei non sa se posso occuparmi di questa faccenda, ma le hanno detto che abbiamo messo pozzi dappertutto e adesso, secondo lei, tocca a Dikon-hin.
14 dicembre 2023 a Dikon-hin