donne del Senegal

Le Bajenu Gox di Thiès, in Senegal

Qui in Senegal, in lingua wolof, si chiamano Bajenu Gox. Ma le ritroviamo in tutti i paesi africani. Altrove le chiamano madrine o matrone, relais communautaires, maman lumières. Sono sempre loro, le donne più sagge del villaggio. Hanno un’età imprecisata, oltre i quarant’anni, tre, quattro figli, qualcuno è morto. Convivono con le seconde o le terze mogli e le comandano a bacchetta. Non godono più dei favori del marito, ma possono riposarsi, veder crescere i figli e i nipoti, amministrare la grande famiglia e fare anche di più. Perché la loro è un’esperienza consolidata, hanno visto il bene e il male, sono sopravvissute alle carestie e alle malattie, hanno una risposta per tutto e se non ce l’hanno ti possono sempre raccomandare al Signoriddio, che qui si chiama Allaha e Lui le ascolta. Tutte le donne del villaggio, se hanno dei problemi, cose di donne, vanno da loro. Qualche volta, magari di nascosto, anche i vecchi chef tradizionali le fanno chiamare per chiedere consiglio nei complicati affari di villaggio, matrimoni, divorzi, figli da assegnare non si sa a chi, colpe e perdoni da distribuire. I sistemi sanitari nei paesi del sud globale, in grave carenza di personale qualificato, davanti alle immense distese di savane e foreste in cui sono dispersi i villaggi, fanno tesoro di queste figure e le valorizzano. Se si vogliono migliorare gli indicatori della mortalità materna, neonatale, infantile e la situazione disastrosa della malnutrizione cronica, è velleitario sperare di poter aumentare le strutture sanitarie o la qualità dei servizi. Bisogna fare anche quello, ma la parola d’ordine è la prevenzione e l’orientamento precoce della donna ai servizi sanitari prima che la situazione si degradi irreparabilmente. Questo è il ruolo delle Bajenu Gox e il senso dei corsi di formazione che stiamo organizzando qui in Senegal, a Thiès, sollecitati dal governo e dalle associazioni locali. Al corso (una ventina di donne per 7 villaggi) imparano come si sorveglia una gravidanza e quali possono essere le complicazioni, imparano che il parto è più sicuro al centro di salute e come bisogna spiegarlo alle donne, apprendono la corretta gestione e l’alimentazione di un neonato (l’allattamento esclusivo al seno per sei mesi) e poi i supplementi di cui ha bisogno il bambino fino a cinque anni per uno sviluppo adeguato. Dopo cinque giorni intensivi di lezioni frontali, di audiovisivi, di animate discussioni tra di loro in wolof, di giochi di ruolo e di improvvisi momenti di canti e danze, quando sono stufe marce, se ne tornano al villaggio. Già forti della loro autorevolezza, ora possono anche mostrare un bel diploma, il loro ruolo è riconosciuto dallo stato e dall’infermiere del posto sanitario più vicino: la loro parola diventa legge. Organizzeranno delle chiacchierate di gruppo sui temi della salute materno infantile e delle visite a domicilio, se sentono dire di una donna in gravidanza, che ha dei problemi, o di un bambino con la malaria grave, che viene trascurato dai genitori. Durante una pausa caffè, mi avvicino a Binta Ndoye, è una delle più attente e mastica anche un po’ di francese. Le chiedo quale sarà il primo argomento che vorrà affrontare con le donne del suo villaggio. Casualmente vengo così ad apprendere un’altra delle torture a cui la tradizione sottopone la donna africana, o per lo meno quella wolof, di cui mai avevo finora inteso parlare. Bisogna premettere che nelle società patriarcali africane, la moglie si trasferisce nel villaggio e nella casa del marito e da allora in poi sarà alla mercé della belle mère, della suocera cioè, e di tutti i parenti del marito. Bisogna inoltre considerare che la donna/moglie, per la famiglia del marito, rappresenta fondamentalmente un investimento e una risorsa produttiva. È bene che resti incinta, questo arricchisce la famiglia, ma non può smettere di darsi da fare, la gravidanza non la esonera dal lavoro. Anzi, di più. Binta mi spiega che avvicinandosi il parto, il carico di lavoro aumenta, la donna viene spremuta fino allo sfinimento, serve sempre più legna e più acqua e toccano sempre a lei le estenuanti ore al mortaio, per pilare il miglio. Ma perché diavolo mai, chiedo io, perché sottoporre ad un tale sbattimento il povero bambino nel ventre di sua madre. “Ma perché così viene fuori prima e la donna può ricominciare a lavorare sul serio!” è la strabiliante risposta di Binta, che adesso è davvero incazzata. Mi spiega che non se ne può più di queste traditions absurdes, adesso che sa cosa vuol dire un parto prematuro e tutti i rischi che corre il neonato, proprio di quello vuole parlare alla prima riunione, e se qualche belle mère si azzarda a contraddirla sa ben lei come rispondere.

A Thiès Nord, 11 ottobre 2019 Franco De Giorgi  

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